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Cattolici Genovesi




















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TORNIAMO ALLA MESSA IN LATINO
(Non saranno i riti in dialetto a farci comprendere il Sacro)

Egregio direttore, la notizia di una Messa in dialetto genovese («Secolo XIX» del 2/9/2005), da celebrarsi l'11 p.v. in Santa Caterina di Portoria, mi ha gravemente turbato ma può essere lo spunto per una rinnovata riflessione sulla realtà della Chiesa e più in particolare sulla liturgia, cuore della fede.

Sgomberiamo subito il campo da un facile equivoco. Non si tratta di avversare il dialetto in quanto tale, anzi: chi vede nella conservazione delle tradizioni il fondamento dell'identità di un popolo e le radici a cui restare ancorati anche e soprattutto nei momenti storici di crisi, non può che amare e valutare grandemente questa lingua parlata così espressiva, vivace e colorita.

Ma la tradizione popolare non può essere confusa con la Tradizione della Chiesa Cattolica che mai, in molti secoli, ha celebrato il Santo Sacrificio se non nella lingua liturgica, il latino, lingua sacra, dotta, adatta per le cose di Dio. Questo è il cuore della questione: la perdita del senso del sacro. Che vuol dire separato, su un altro piano rispetto alle cose umane, distinto da esse come il cielo è distinto (e distante) dalla terra.

Questa perdita si osserva anche per il senso dello spazio sacro: sempre più le chiese sono luoghi dove si chiacchiera, si gironzola, si entra come in un museo per guardare le opere d'arte, si applaude come a teatro per sentire un concerto, si partecipa distratti a una festa di nozze.

Si deve prendere atto che, una volta tradotto (e tradito) il rito latino millenario, questo tesoro vivente della secolare sapienza della Chiesa, ogni invenzione e ogni profana trovata può essere proposta e approvata, sia dalla gerarchia, sia dai fedeli, che hanno smarrito il senso del sacro anche nel senso di intangibile. A nessuno è permesso toccare cioè manipolare, adattare, modificare, innovare, sperimentare ecc. Questo comandava il papa San Pio V ne1 1570, promulgando il Messale Romano che normava la molteplicità dei riti precedenti che non avessero più di due secoli.

Dov'è quella prudenza, quella saggezza, quella venerazione della lex orandi giunta a noi attraverso i tempi e la storia?
Con quale folle presunzione si pretende di cambiare quello che non si è neppure ancora compreso nella sua meravigliosa profondità?
Dove e come l'uomo d'oggi potrà saziare la sua fame di Dio, la sua sete di mistero? Con la Messa in «zeneize»? Non lo credo.
Auspichiamo vivamente che il Papa conceda al più presto la libera celebrazione della Messa in Rito Antico e per questo preghiamo.

FRANCESCA POLUZZI

f.poluzzi@email.it


Lettera pubblicata su "Il Giornale" in data 9/9/2005


 
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