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Difesa della Vita



 
DALLA BIOETICA AL BIODIRITTO
DI Paolo Becchi


Intervento tenuto alla “II° Conferenza nazionale di Bioetica per la Scuola”, Università degli Studi di Genova, Aula Magna, 13 – 14 dicembre 2002. Per un approfondimento di alcuni dei temi qui trattati mi sia consentito rinviare a P. Becchi, La morte nell’età della tecnica. Lineamenti di tanatologia etica e giuridica, Genova, Compagnia dei librai, 2002.
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Fino a poco tempo fa la bioetica era un ambito di studio di competenza soprattutto dei teologi e filosofi. Ed è certo che teologia e filosofia morale hanno molto da dire (anche) nell’etica. Non deve pertanto sorprendere se nel nostro Paese, le prime cattedre di bioetica siano state istituite presso la Facoltà di Filosofia e di Scienze della Formazione, dopo che la bioetica peraltro già da diversi anni veniva insegnata nelle Università cattoliche.
Le cose tuttavia stanno lentamente cambiando e la bioetica sta penetrando anche nelle Facoltà di Scienze giuridiche. Nel nostro Pese ciò non è ancora percepibile, ma basta spostarsi nella vicina Svizzera per rendersi subito conto di come alcuni gruppi di ricerca siano coordinati insieme da giuristi e teologi. Penso al programma nazionale di ricerca sul problema del trapianto di organi da cadavere finanziato dal Fondo Nazionale Svizzero. Oppure, per fare l’esempio di un paese più grande come la Germania, è altrettanto significativa l’istituzione di cattedre di Diritto della Medicina (che non è esattamente corrispondente alla Medicina Legale) nelle Facoltà di Giurisprudenza.
E’ il segno che il diritto non solo nella sua funzione di organizzazione della convivenza sociale, ma anche in quella della formazione scientifica e culturale sarà sempre più chiamato ad estendere le sue competenze anche in questo nuovo settore disciplinare. E per farlo ha bisogno di giuristi, che da giuristi, cioè dal punto dal punto di vista giuridico, affrontino gli stessi problemi che da tempo sono oggetto di discussione da parte di teologi e filosofi morali.
Allo stato attuale abbiamo diverse “nuove” etiche circolanti, ma nessun “nuovo” diritto. Eppure le recenti evoluzioni biotecnologiche applicate alla medicina sollevano nuovi problemi e costituiscono una sfida anche per il pensiero giuridico. Una sfida che i giuristi dovrebbero senz’altro accogliere,senza per questo appiattirsi su una legittimazione dei successi della tecnica. Vorrei fornire telegraficamente solo qualche esempio per illustrare alcuni dei grossi problemi che si trovano sul tappeto.

1 – A partire soprattutto dal successo delle tecniche trapiantologiche (da vivente, come da cadavere) siamo sempre più abituati a considerare il corpo umano non più come un tutto unitario, bensì come un semplice insieme di parti separabili. Venuta meno l’inscindibilità del corpo, le sue parti potrebbero essere considerate come cose, di cui il suo proprietario possiede – come per le altre cose – un’assoluta ed immediata disponibilità. Una tale scomposizione del corpo non può ovviamente non riflettersi sulla sua considerazione complessiva.
E’ il corpo stesso ad essere ridotto ad una cosa<: non più dunque assimilato, come tradizionalmente accadeva , alla persona; bensì collocato interamente tra i beni negoziabili. La classica separazione giuridica tra persone e cose viene così scossa dalle fondamenta. Dobbiamo concluderne che quella separazione veda superata e che sia giuridicamente accettabile cosificare il corpo e dunque ritenere ammissibile la sua commercializzazione?
Questa prospettiva, si potrà subito replicare, incontra forti ostacoli nei documenti normativi esistenti; anche in quelli più recenti, che tendono comunque a considerare il corpo come res extra commercium , e pertanto un bene non negoziabile. Così, per citare la Convenzione Europea per la protezione dei diritti dell’uomo e la biomedicina del 1997 (recntemene certificata anche dallo Stato italiano) si potrà ricordare che l’art. 21 recita:”il corpo umano e le sue parti non debbono essere , in quanto tali, frutto di profitto”.
D’altro canto va peraltro osservato che i donatori di sperma ricevono sotto forma di “rimborso spese” una contropartita finanziaria; mentre i compensi per gli ovuli sono molto più elevati; ma questo probabilmente riguarda solo gli Stati Uniti d’America, dove tra l’altro è pur ammesso il contratto di maternità surrogata, con diverse tariffe di mercato. Quest’ultimo caso è di particolare interesse poiché mostra come la commercializzazione della funzione riproduttiva coinvolga il corpo della madre “surrogata” nella sua totalità. Insomma,come si vede già oggi almeno negli Stati Uniti, aspetti commerciali comuni alla capacità umana sono tutt’altro che esclusi. Il grosso interrogativo che si pone è il seguente: perché il diritto dovrebbe nondimeno continuare a vietare la commercializzazione del corpo e delle sue parti ? Vi possono certo essere delle buone ragioni per considerare eticamente (e religiosamente) riprovevole la commercializzazione del corpo, ma perché il diritto in varie società marcatamente pluralistica come la nostra dovrebbe vietarla ? Insomma, le possibilità che le attuali tecnologie applicate al corpo umano ci offrono costringono (anche) la scienza giuridica a ripensare le categorie su cui si fonda. E se la discussione filoosofico-giuridico degli anni settanta è stata caratterizzata soprattutto da questioni di giustizia distributiva, negli ultimi anni un nuovo principio si è imposto all’attenzione ( e lo sarà sempre più) quello del rispetto della dignità umana.

2- Un secondo aspetto su cui vorrei richiamare l’attenzione è il tema dell’eutanasia, che presenta – anche se a prima vista non sembrerebbe un significativo punto di contatto con la tematica a cui ho accennato. La medicina quando non è più in grado di guarire, dispone oggi di mezzi che sono in grado di procrastinare nel tempo la morte del malato. Alcuni paesi europei (i Paesi Bassi ieri, il Belgio oggi) hanno già promulgato leggi che consentono la pratica dell’eutanasia attiva, ma il modo teorico-giuridico su cui si reggono i nostri codici civili e penali, quello dell’indisponibilità dell’integrità fisica, e dunque a fortori della vita, è tutt’altro che risolto, e questo forse spiega perché alcuni paesi (tra cui il nostro) restano ancora molto forti le resistenze nei confronti dei progetti legislativi favorevoli all’eutanasia.
Rispetto ad un malato terminale che vuol farla finita in effetti l’unico argomento che giuridicamente si potrebbe far valere 8e vi è ancora chi oggi argomenta così) è quella che ricorre al principio dell’indisponibilità della vita, fondato sul nostro ordinamento nell’art. 5 del codice civile, che affermava :”gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge o il buon costume”.
Qual è il punto di contatto con la tematica precedente? Mi pare evidente. Il problema della disponibilità del proprio corpo ( e le sue parti) si connette a quello della disponibilità della propria vita. Una società fondata sui valori cristiani condivisi potrà certamente ancora far propri questi principi , ma è possibile farli accettare in una società pluralistica e ormai definitivamente secolarizzata come la nostra?

3 - Mentre molte problematiche connesse alla vita (anche alla sua fine) il dibattito è comunque aperto, il problema della morte e dei morti sembrerebbe l’unico ad essere già risolto in modo soddisfacente. Sto pensando al tema del trapianto di organi da cadavere , presentato dalle diverse legislazioni europee (e non solo) come risultato di un gesto d’amore e giustificato sulla base del criterio universalmente accolto della morte cerebrale.
Trascuriamo qui il fatto che è piuttosto contraddittorio presentare il consenso al prelievo come un atto di pura generosità e poi (come prevede la nostra recente legge) introdurre un criterio tale per cui è sufficiente che un individuo non si sia opposto al prelievo per essere considerato donatore. E’ lecito domandarsi che tipo di dono sia quello che scaturisce da un simile meccanismo. Ma, viene inoltre da chiedersi, perché la “donazione” dovrebbe essere necessariamente un gesto d’amore (peraltro finto) e non si potrebbe invece , per allocare gli organi , introdurre una sorta di reciprocità tra chi è disposto a donare gli organi, e manifesta la sua volontà al riguardo e chi (eventualmente) si trovasse nelle condizioni di averne bisogno? Qui l’introduzione di un criterio eminentemente giuridico come quello della reciprocità potrebbe comportare un aumento considerevole delle donazioni, motivate magari non più dalla pura generosità, ma da un interesse peraltro del tutto lecito.
Nel trapianto degli organi non è tuttavia soltanto il gesto d’amore ad essere una finzione: è infatti lo stesso criterio della morte cerebrale che si sta rivelando sempre più una finzione.
La nozione di morte cerebrale totale non riesce a dimostrare ciò che invece vorrebbe provare, vale a dire l’assenza irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo. Attendibili studi scientifici effettuati negli Stati Uniti d’America nel corso degli anni novanta, hanno evidenziato che molti individui che soddisfano tutti i tests previsti per accertare la morte cerebrale totale, in realtà non presentano la cessazione irreversibile delle funzioni dell’intero encefalo.
Anche qualora si volessero introdurre tests ulteriori e più sofisticati e alla fine si fosse in grado di accertare la morte cerebrale totale (alcuni ritengono che sia comunque impossibile) resterebbe nondimeno da dimostrare perché la morte di un organo, sia pure importante come il cervello, dovrebbe comportare la morte dell’intero organismo. Il presupposto fisiologico su cui si basava la morte cerebrale era che un corpo cerebralmente morto non fosse in grado di mantenere , se non per pochi giorni, funzioni cardiovascolari stabili: l’arresto cardiaco sarebbe stato cioè , anche con l’ausilio delle macchine, imminente. Questo, in effetti, sembrava confermare l’idea che quel corpo in realtà non fosse nient’altro che un insieme scollegato di organi. Quando tuttavia dalla letteratura medica appare sempre più chiaro che corpi il cui cervello aveva smesso di funzionare potevano sopravvivere in quella condizione per lunghi periodi il suddetto presupposto venne a cadere . Questo spiega perché alcuni medici americani, che in precedenza avevano sostenuto la validità del criterio cerebrale di morte, abbiano nel frattempo totalmente mutato le proprie convinzioni.
Il discorso meriterebbe un approfondimento che non si può fare nel poco tempo che ho a disposizione ; vorrei tuttavia concludere sottolineando un punto che mi pare decisivo sotto il profilo giuridico. Se la condizione posta dalla nostra legislazione è che il prelievo avvenga da individui di cui è stata accertata la cessazione irreversibile di tutte le funzioni cerebrali, allora è del tutto evidente che venendo a mancare tali condizioni (perché alcune funzioni ancora persistono) il prelievo degli organi avviene in un momento in cui i donatori, secondo la legge, sono ancora vivi. Sino a quando potremo continuare a far finta che siano morti?

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